Studenti del Liceo Fermi

La Confraternita - Lorenzo Boldrin

Debbo ammettere che, all’inizio di questa storia, era scettica pure la mia visione alla fine del tunnel, alla fine della storia, e come se non bastasse, a quelle incertezze si accumularono moltemplici crepe di riluttanza quando, a poco a poco, venni a sapere dell’esistenza della Confraternita. Non ero certo se cedere a tale valanga di concrete menzogne, attraversavano la mia mente pensieri contorti che non mi lasciavano respirare durante tutto il reportage. Sarei dovuto andare davvero in fondo alla questione? Avrei dovuto davvero rivelare gli intrinsechi segreti che trasudano le ampie palestre di questa scuola, i veleni sorridenti che appiccicano le dita alle finestre; Dio, o chi per lui, mi ha incaricato di compiere suddetto atroce mestiere – l’infido mestiere del giornalista – e come Socrate, posto ai fianchi della sua patria Atene, ecco che mi accingo a sistemarmi nella mia postazione. Ecco la storia della Confraternita. Il ragazzo, la ragazza, che va a scuola al Liceo Scientifico Statale Enrico Fermi conosce sostanzialmente tre certezze: 1) la campanella suona quando vuole; 2) Teoria Dei Bagni Correlati: se, uscendo dalla classe e recandoti in bagno, incontri una persona del sesso opposto che si dirige al suo bagno, vai sicuro che ritroverai suddetta persona al tuo ritorno (pazzescamente folle e meccanicamente geniale, chi ha progettato la planimetria scolastica doveva essere un mago dimenticato); 3) la terza certezza ti si presenta come diretto corollario della precedente Teoria e anzi, addirittura la certezza numero tre può permettersi di ribaltare gli schemi prestabiliti. Può capitare che, spensierato, pensierioso, assorto nel confutare per assurdo la Teoria Dei Bagni Correlati, scorgi da lontano, appostata davanti alla porta come un segugio affidabile, il carrello dei bidelli, quell’autotreno, quel camion che si portano avanti e indietro e indietro e avanti, quel veicolo che conserva i loro strumenti di tortura. I bidelli, eccoli, guardali, osservali gongolare melliflui spazzando qui e spazzando là, e il mocio strisciando copre i loro respiri di boria. I bidelli puliscono il bagno, ancora quando serve. Ti dicono: vai su! Su dove? E già si rintanano tra i loro detersivi, tra le svastiche nei bagni, tra gli insulti rivolti al Nievo (non l’ho mai capito!) e gli acronimi anacronistici. Ma tuttavia non c’è nulla da rimproverare ai bidelli: eseguono solo gli ordini, gli ordini della Confraternita. Ahimè, chi servivano i bidelli tra il ‘33 e il ‘45?

Quindi un giorno – era il ventitré gennaio millenovecentonovantuno, lo ricordo alla perfezione – finalmente ruppi gli indugi. Tutti a lamentarsi dei bidelli che puliscono quando non devono, ma tu, tu che punti il dito: hai mai chiesto loro perchè lo fanno? Alla vista del carrello maledetto, mi gonfiai di rabbia perchè matematica – penultima ora – mi aveva spremuto così tanto la vescica che,

giuro, non riuscivo a trattenermi per la prossima ora di Inferno. Dovevo svuotarmi, e nessuno mi avrebbe fermato. Sentivo intanto, con il lento inchino dell’orecchio, che la bidella Lucia era in bagno a fischiettare, gioiosa com’era sempre stata, ma non mi spaventavano i suoi peli da donna cannone, nè il suo doppio-triplo-quintuplo mento che mi mostrava con così grande eleganza.

Mai frase più sbagliata mi fu posta.

“Scusa, ma sto pulendo. Vai su se devi andare in bagno!”

“Perchè?”

“Perchè cosa? Perchè sto pulendo; voi ragazzacci la fate sempre fuori…”

“Perchè lo fai? Perchè pulisci a queste ore, alle dodici, che nessuno è ancora andato via, perchè mi fai questo donna. Perchè pulisci adesso?”

“Sono cose che non ti interessano, che non puoi sapere. Pensa a studiare.”

Ed allora quella spinosa risposta venne inchiodata sempre più fissa nel mio cervello, e ci ripensavo ogni ora, il giorno dopo, per tutta la settimana, tutto il mese, fino a marzo, che la primavera cominciava e riscaldare nuovamente il giardino d’asfalto, infreddolito e addormentato all’inverno. Cose che non ti interessano, che non puoi sapere… cosa mi nascondeva quella donna, cosa voleva insinuare Lucia, che sempre era stata gentile e carina con me, eppure in quella risposta malefica il tempo si era fermato e avevo notato il suo ghigno diabolico sotto quintali di trucco mal disegnato. Lucia era magra come un lampione, e mi aveva illuminato sugli oscuri segreti di quella scuola.

Ne parlavo con i compagni, con i professori. I primi mi dicevano di lasciar perdere, che la scuola italiana è allo sbando e che nulla può salvare noi poveri studenti abbandonati a loro stessi – e quasi pensavo che fossero

conniventi, che avessero un patto con i bidelli; i secondi invece, miseri, vuoti professori dagli occhi tristi, mi guardavano con la malinconia di chi vede deragliare il treno dei desideri che cantava Celentano, affermavano spenti che il pomeriggio non è più azzuro da un bel po’, il cielo sarà sempre meno blu e più inquinato, e che dovevo studiare Jacopone Da Todi, senza fare domande. Capivo che non sapevano niente, oppure sapevano ma erano 21talmente grigi e insapore e incolore che non avrei cavato nulla dai loro ispidi personaggi, così vicini eppure così lontani.

Andai a discuterne con il preside e, alla mia domanda: perchè puliscono i bagni quando siamo ancora a scuola?, mi sminuì con una risata, mi allontanò con un gesto voluminoso della mano. Secondo la sua voce possente, non avevo da preoccuparmi, ancora, ma mi fissava come un umano studia un extraterrestre, come un umano osserva un animale che ha appena imparato a ragionare, come un umano che scopre che non tutto è sotto il suo controllo. I suoi improvvisi movimenti, che pensava io non carpissi, ebbene, io li carpivo eccome: sentivo che stavo scuotendo qualcosa e quei presidi atavici incollati alle pareti mi scrutavano come avessi rotto il tabù. Mi avevano sfidato: avevo colto la mela proibita, dall’albero vietato giù nel cortile di pietra, e la mangiavo, cazzo se era buona. Il preside mi controllò finchè non fui fuori dalla sua stanza e allora, attivato dai miei convulsi pensieri paranoici, mi spalmai con l’orecchio alla sua porta, per origliare le sue prossime mosse. Se c’era qualcuno che sapeva qualcosa, di sicuro era il preside: come mi sbagliavo! Quanto pensavo di essere vicino alla verità! Non era altro che una pedina, su una scacchiera che si allargava a vista d’occhio. Ascoltavo flebilmente l’ansimare gravoso del preside, da fuori la stanza, e percepivo la propagazione della vibrazione che i suoi pesanti passi trasmettevano dalle sue gambe al mio corpo martoriato dai dubbi. Dovette aver preso in mano la cornetta, il telefono pulsante all’orecchio accorto, disse: “Si stanno svegliando. Non sono scemi.”

Era il marzo odoroso, e solevo così passare i miei pomeriggi; meno azzurri certo (non trovavo più nemmeno l’Africa in giardino), eppure, eppure ecco che la macchina iniziava a scricchiolare.